Un editoriale sulla “gioiosa macchina da guerra” avviata contro l’autonomia

È già schierata al gran completo, la “gioiosa macchina da guerra” di una certa parte politica (allargata al campo largo di ogni alfiere dello status quo) intenta a dispiegare tutta la sua forza propagandistica per contrastare quell’autonomia richiesta dalla Lombardia e dai suoi cittadini.

E così, come prevedibile, in molti stanno adoperando tutto il proprio armamentario retorico per tratteggiare un futuro a tinte fosche – quasi apocalittico – per la Nazione, qualora la riforma arrivasse al suo naturale compimento.

Appare curioso constatare come tanti di questi signori, in tempi elettorali neanche troppo distanti, si fossero detti favorevoli all’autonomia. Oggi però, alla prova dei fatti (che in politica, come nella vita di tutti i giorni, è l’unica cosa che conta) la maschera di cera si è sciolta, rivelando la reale essenza delle cose.

 

Il centralismo, anima più vera dell’apparato sin dei suoi primissimi vagiti sabaudi, è stato tutt’altro che mitigato con la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. Ha soltanto indossato un altro vestito; dismessa la divisa e indossato il completo da burocrate, la sua natura si palesa per bocca dei suoi difensori che, distanti da qualsiasi intenzione volta a un dibattito serio e costruttivo, sventolano ancora una volta come solo argomento il fantasma della secessione, sperando così di far gioco sulla paura di una minaccia del tutto inesistente. E del resto, se questi argomenti avessero un qualche valore, sarebbe bastata l’esistenza stessa delle Regioni autonome a far colare a picco la barca molto tempo fa.

Quanto appare paradossale, tra l’altro, è l’alienazione dovuta a un certo atteggiamento ideologico, perpetrato dai medesimi che non perdevano occasione di utilizzare l’estero in chiave acriticamente positiva, come solo e unico metro di paragone rispetto a qualsiasi sorta di politica pubblica. Di colpo però ci si scorda come esistano infatti sul panorama internazionale Paesi con forme molto spinte di autonomia differenziata e che, guarda caso, non sono andati incontro ad alcuna disgregazione. E che dire poi degli Stati pienamente federali, dove le componenti territoriali hanno un grado di libertà ancora maggiore? Se l’onestà intellettuale fosse di questo mondo basterebbe poco per rendersi conto che si tratta dei Paesi più efficienti e meglio amministrati, maggiormente democratici, quelli con il PIL pro capite più alto e con i minori livelli di corruzione nella cosa pubblica.

 

L’autonomia differenziata trae origine dall’articolo 116 della Costituzione italiana, che costituisce la norma fondamentale di legittimazione del nostro sistema regionalista. Se al primo comma, infatti, sono sancite le cosiddette Regioni a Statuto speciale, che godono di particolari forme di autonomie, in ragione di peculiarità specifiche e di trattati antecedenti la nascita della Repubblica, il secondo comma stabilisce la possibilità per le restanti regioni di chiedere (e ottenere) ulteriori forme di autonomia rispetto a quelle previste dalla ripartizione delle competenze dell’articolo 117.

La ragione di questa specifica risulta di facile comprensione per chiunque abbia consapevolezza rispetto al contesto italiano. Tralasciando i discorsi di natura storica, che esistono e hanno un peso schiacciante, l’Italia è formata da un insieme molto eterogeno di realtà territoriali, caratterizzate da differenze non soltanto economiche, ma anche linguistiche e tradizionali, che vanno ben oltre la classica dicotomia Nord-Sud. il legislatore costituzionale del 2001, perfettamente consapevole di questa situazione oggettiva, si era dunque posto il problema di creare uno strumento che potesse offrire una risposta alle legittime istanze che sarebbero certamente sorte nel corso del tempo.

Da qui l’idea di un regionalismo differenziato. Differenziato perché differenti sono le caratteristiche e il grado di emancipazione economica dei singoli territori. Differenziato perché l’idea di uno sviluppo uniforme, magari auspicabile nel mondo ideale, fa comunque a pugni con la realtà dei fatti. Differenziato perché, in una visione pacifica e matura, ci si dovrebbe rendere perfettamente conto di come sia doveroso riconoscere le differenze e incentivare il merito, anche nell’ottica di spronare qualcuno a fare meglio di quanto non sia avvenuto fino a oggi.

 

L’idea di uno sviluppo generale e armonico, si pone quindi all’antitesi con quella di uno sviluppo perfettamente all’unisono. Questo principio è semplicemente irrealizzabile, come dimostrato dagli innumerevoli tentativi e dalle considerevoli iniezioni di denaro a fondo perduto da parte dello Stato e dell’Unione europea, in certe zone del Paese. Operazioni di sussistenza che si sono tradotte in un assistenzialismo cieco e incapace di produrre alcuna forma di vera emancipazione economica. Si è sempre voluto servire il pane sulla tavola, ma nessuno si è posto il problema che forse sarebbe stato meglio fornire il forno ma soprattutto la professionalità necessaria per fare l’impasto.

 

Che cosa resta da fare quindi? Le alternative sono essenzialmente due.

La prima di queste è quanto auspicato da chi oggi si straccia le vesti contro l’autonomia. Si tratterebbe, al netto della retorica sui livelli essenziali delle prestazioni, di rassegnarsi alla stagnazione odierna, continuando a lasciare zavorrata la parte economicamente più sana e produttiva del Paese, aspettando l’inevitabile declino. Non si arriverà a nessuno sviluppo ulteriore, semplicemente alla lunga si andranno a livellare verso il basso le differenze. E quando anche l’Europa si sarà stancata di mettere delle toppe, finalmente in Italia saremo tutti uguali, ma nella miseria più nera.

 

La seconda alternativa invece è ribaltare il tavolo e cambiare il sistema, che inopinabilmente non ha mai funzionato, ponendo le basi per favorire chi ne è meritevole e aiutando chi è più in difficoltà, ma con raziocinio e programmazione. Significherebbe, nel concreto, lasciar libero di correre e competere chi ha le gambe e il fiato per farlo.

Lasciando i pregiudizi nel cassetto si potrebbe arrivare alla conclusione che un sistema federale è quel modello che contempla sì un certo grado di libertà, ma che ha anche meccanismi in grado di spingere verso il bene comune complessivo di uno Stato. Strumenti, tra l’altro, ampiamente previsti dalla nostra Costituzione che, da qualcuno, viene letta solo nelle pagine pari, tralasciando le dispari.

 

L’autonomia è un’occasione. Probabilmente l’ultima per un Paese che fin dal primo giorno è stato impostato nel modo sbagliato, cercando di mortificare le differenze, anziché valorizzarle.

Si tratta di argomenti di buon senso, che però non paiono intaccare le convinzioni granitiche di quelle forze politiche che mai vorrebbero concedere qualcosa in più alla Lombardia. A dimostrazione della cattiva fede basterebbe fare un piccolo esercizio di memoria, ricordandoci certi atteggiamenti nelle primissime fasi dell’emergenza coronavirus, dove taluno, in barba al dramma collettivo, faceva di necessità virtù, magari paventando l’allettante prospettiva di commissariare la Regione.

Ma forse la verità è ancora più banale: qualcuno è semplicemente terrorizzato all’idea di concedere più libertà ai territori, e quindi ai cittadini.

Ft. Woland

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